Uno sconforto crescente. A firmarlo è un professore di Storia e Filosofia di un liceo scientifico di Pavia, che contro la frammentazione del suo ruolo pone una domanda evidente: “Perché ho ancora voglia di cambiare lavoro?”. In una lettera aperta al Corriere della Sera, il docente di 45 anni descrive una scuola che pretende da lui di essere tutto — burocrate, psicologo, informatico, giullare — tranne che insegnante.
In poco più di vent’anni di carriera, il docente racconta di essere oggi “psicologo, psichiatra, informatico, ingegnere, pedagogista”, perfino “saltimbanco” chiamato a fare lezioni spettacolo per stimolare la simpatia degli studenti. E se l’inclusività è al massimo, cresce l’ignoranza più pervicace: “Gli alunni sbagliano, ma non si può correggere. La verità e la realtà devono cedere il passo alla gentilezza”, scrive il professore.
Il docente affronta un contrasto evidente: le capacità dei ragazzi — comprensione, logica, linguaggio — peggiorano, ma i promossi aumentano, gli scrutini si addolciscono e i maturandi ormai sono pressoché tutti. In questo falso clima di miglioramento continuo, “l’inclusività” diventa sinonimo allarmante di appiattimento del merito.
Il problema, sottolinea ancora il professore, non riguarda solo la scuola. Auspica che anche il contesto più ampio — famiglia, società, comunità — assuma responsabilità educativa: “Per crescere davvero un ragazzo ci vuole un intero villaggio”, conclude, perché la scuola da sola non può e non dovrebbe sopportare tutto.
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