“Caro Ministro Fornero…c’è chi accetta anche lavori disgustosi”

In queste ore ci sono giunte tantissime lettere in redazione da parte di giovani laureandi o laureati indignati e offesi dall’ennesima etichetta che gli viene attribuita per pregiudizio o scarsa conoscenza. Tra tutte, abbiamo scelto di pubblicare quella di questa giovane dottoressa in lingue perchè riteniamo che la sua testimonianza possa rappresentare perfettamente centinaia di migliaia di giovani che vivono lo stesso drammatico disagio

 

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

Gent.ma Dott.ssa Fornero,

eccomi qua. Sono una come tante, una delle tante; forse di lettere come questa ne avrà già ricevute a bizzeffe, ma solo perché qualcuno l’ha fatto prima di me non vuol dire che io debba lasciarmi condizionare o fermarmi.

Vede? Questa è una delle caratteristiche di alcuni giovani della mia generazione: nonostante tutto, e dopo tutto, troviamo ancora il coraggio di non lasciarci fermare. Sia chiaro: non intendo generalizzare in alcun modo, né in un senso né nell’altro. Ritengo solo doveroso fornire la mia personale testimonianza tra tante, consapevole che di sicuro una larga fetta di miei coetanei potrà rispecchiarsi in quello che ho da dire.

Ventisei anni, due lauree in tasca (una triennale ed una specialistica, entrambe in Lingue) conseguite nei tempi perfetti ed entrambe con il massimo dei voti; ho fatto il mio ingresso nel famigerato mondo del lavoro italiano circa due anni fa, nell’ottobre del 2010, a un mese dalla conclusione del mio percorso accademico.

Come tutti, ho iniziato con una formula che i laureandi e neolaureati di tutta Italia trovano ormai ricorrente nelle ‘offerte’ di lavoro: uno stage. Che male c’è, ho pensato, uno stage serve, uno stage lo fanno tutti, uno stage è solo una tappa per insegnarti qualcosa, è un necessario start up per iniziare a riempire il curriculum vitae. Sono solo sei mesi di sacrifici, sei mesi con un rimborso spese che definire patetico è poco e definire ridicolo non rende l’idea di come mi faceva sentire leggere la cifra a uno zero (si, uno zero) sulla ‘busta paga’ ogni mese.

Ho iniziato il mio stage: entusiasta, fiduciosa, volenterosa d’imparare e fresca di studi universitari che, per quanto male ne vogliamo parlare, nel mio campo (quello linguistico) qualche frutto lo danno, se fatti con impegno.

Inutile dire che i miei sei mesi sono finiti come finiscono quasi tutti gli internship dei giovani italiani: con un ‘mi dispiace ma non assumiamo al momento, non siamo riusciti a ricavare uno spazio per te in azienda, però credimi, l’esperienza formativa ti servirà, la ricicli come vuoi per avviarti professionalmente’. Inutile dire anche che non mi sono persa d’animo: era solo il primo passo, immaginavo di dover affrontare i leoni, ma ero ancora ingenuamente fiduciosa che il mio Paese mi avrebbe dato un’opportunità, che esistesse la meritocrazia per chi come me non aveva studiato tanto per studiare ma ci aveva messo passione, impegno, sacrifici miei e della mia famiglia, per chi come me aveva dovuto aiutarsi negli anni da fuori sede con borse di studio (e la relativa ansia di mantenere la media alta per poterne usufruire) e lavoretti come baby-sitter e promoter nei centri commerciali.

Ce ne sono tante, mi creda. Non tutte nasciamo con un Ateneo pronto ad accoglierci ed una cattedra intagliata nel legno su misura per noi, mi creda.

C’è chi ogni piccolo progresso, ogni minimo successo deve guadagnarselo e SUDARSELO, mi conceda il maiuscolo, che è esattamente quello che ho fatto e continuo a fare, nello specifico, dall’ottobre 2010.

Sfortuna ha voluto che il periodo in cui ho ultimato il mio stage abbia coinciso con l’ingresso sempre più potente della ben nota crisi economica che affligge le tasche e gli animi degli italiani negli ultimi mesi; sfortuna ha voluto, quindi, che noi freschi laureati vedessimo dimezzarci davanti agli occhi le concrete possibilità di lavoro e iniziassimo un’infinita trafila fatta di iscrizioni ad ogni agenzia interinale possibile ed immaginabile, di invio di CV ad ogni ora del giorno e della notte, di stesura di lettere di presentazione e motivazione che basterebbero per rivoluzionare un intero paese, di notti insonni, ansie, discussioni, di giri in centro a consegnare le candidature in tutti i negozi che fare la commessa sarebbe già un miraggio. Si. L’abbiamo fatto tutti, o comunque l’abbiamo fatto in molti.

Ribadisco: non intendo generalizzare. Conosco anche chi non ci prova affatto, chi pur di non ‘abbassarsi’ a determinati compromessi contrattuali o remunerativi rimane a spese di mamma e papà (farà poi così male, dopotutto?), chi il curriculum nemmeno l’ha compilato correttamente, chi aspetta che il lavoro gli piova dal cielo, chi è partito e basta, chi rimane in università studente fino ai trentacinque anni perché quello che c’è dopo spaventa, anzi no, DISGUSTA (ed anche qui: non mi sento di biasimarli del tutto).

C’è invece chi non lo fa, e visto che l’intento di questa mia è di illustrarle la mia personalissima situazione, le dirò cosa ho fatto io per fronteggiare la crisi. Bè… tutto. ‘Tutto’ è l’unico termine che riassume adeguatamente gli ultimi ventiquattro mesi post-lauream della mia vita, in cui per non pesare, oltretutto da fuorisede, sulle spalle della mia famiglia rimasta nella mia città del sud Italia (mentre io mi sono spostata al centro per completare gli studi), che come tutte le famiglie medie ha già troppo a cui pensare, ho accettato lavori e contratti (o non-contratti) di ogni genere.

Il mio curriculum vanta le seguenti posizioni ricoperte: receptionist, insegnante privata, baby sitter, segretaria ufficio estero, cameriera in pizzeria, assistente di direzione, cameriera d’albergo, barista, promoter, traduttrice privata, interprete per collaborazioni saltuarie, impiegata in agenzia viaggi, operatrice di call-center, consulente linguistica aziendale.

Si. Ce le ho tutte, mi creda. Ci tengo a sottolineare che non sono Wonderwoman, semplicemente, in molti casi, si trattava di lavori part-time e per potermi permettere l’affitto, le bollette, il carburante, il cibo ho dovuto farne due insieme, correndo magari ai due capi opposti della città con mezz’ora di pausa pranzo nella quale cercavo di riordinare casa e stendere il bucato.

Si, signora Fornero, siamo ragazze normali, non tutte vogliamo fare le veline, anche quando potremmo permettercelo, e non tutte nasciamo con una prestigiosa fondazione che si occupa di genetica che ci aspetta per nominarci responsabile.

Poi mi sveglio una mattina, una delle mie tante mattine ‘doppio lavoro e zero speranze’, una qualsiasi mattina di un qualsiasi giorno di un mese come un altro, ormai, quando inizio e concludo la mia giornata spulciando le offerte di lavoro per inviare ancora CV in giro; una di queste mattine navigo su Internet e tra le ultime notizie mi colpisce come uno schiaffo in faccia il suo choosy. Choosy vuol dire esigente, vuol dire difficile da accontentare.

Ma il difficile, signora Fornero, per me sta in questo: oltre al danno, la beffa. Oltre a dover vivere in una casa di 40 metri quadrati a quattrocento euro di affitto mensile perché più di questo non possiamo permetterci, il suo choosy. Oltre alle notti senza dormire perché non avere un lavoro priva l’esistenza di senso e la persona di dignità, il suo choosy. Oltre ai miei sogni infranti di studentessa che sperava che bastassero l’impegno e la passione, il suo choosy. Oltre al mio fidanzato che, di questo passo, non potrà tanto presto diventare marito (il matrimonio? Il mutuo? Mettere al mondo un figlio? Sono come il Santo Graal), il suo choosy. Oltre alle speranze di mia madre, che quando mi sono laureata con lode mi vedeva già a fare l’interprete di una prestigiosa multinazionale ma che in fondo si sarebbe accontentata di sapermi indipendente, stabile e serena… il suo choosy. Oltre ad aver dovuto lavorare per duecento euro al mese, lavorare senza alcun contratto né versamento di contributi, il suo choosy. Oltre ai miei ultimi ventiquattro mesi a saltare da un posto di lavoro all’altro, tra contratti a progetto, collaborazione occasionale, lavoro in nero, sostituzione di maternità; oltread una selezionatrice di personale che mi ha chiesto ‘come mai tante esperienze e tutte al massimo di sei mesi?’; oltre alla mente che sente di dimenticare quello che aveva imparato e studiato, al cervello che perde il senso della stabilità, al cuore che si appanna di giorno in giorno… oltre a tutto questo, il suo choosy.

Ecco, signora Fornero: di ‘schizzinoso’ in me non c’è davvero nulla. Io faccio due lavori per mettere insieme, quando tutto va bene, 600 euro mensili. Faccio due lavori per sentirmi viva e continuare a sperare anche quando mi vedo tolti tutti i sogni – e ci sono giorni neri, davvero, mi creda. Faccio due lavori perché noi giovani non siamo tutelati, non siamo stimati, non siamo considerati e ci viene detto anche di non essere choosy.

Gli schizzinosi di cui parla lei sono forse i mille laureati nelle facoltà più disparate che vedo lavorare in ambiti e settori che nemmeno immaginavano di conoscere? Sono i laureati in ingegneria che fanno i camerieri, i laureati in architettura che fanno gli istruttori di pilates, i laureati in lingue che lavorano nei call center, pagati a provvigioni? Sono quelli come me che hanno accettato di lavorare senza retribuzione, senza contratto, senza contributi, dovendosi fidare solo di una parola data e spesso rimangiata perché non c’era altra scelta? Gli schizzinosi sono forse quelli come me che rimangono nel proprio Paese perché credono ancora nella famiglia, nell’amore, nelle relazioni che una distanza forse perenne deteriorerebbe?

Vede signora Fornero… io non sono choosy. Io vedo le mie amiche espatriate che lavorano con stipendi da 2.000 euro al mese in aziende meritocratiche e stimolanti, e fanno per lavoro quello che hanno studiato per passione, per attitudine o solo per caso.

Io resto nel mio Paese: perché il mio fidanzato è uno statale, perché qui dove sono posso ancora mettermi in auto e raggiungere mia madre in mezza giornata se ha bisogno di me, ed in fondo anche un po’ per questione di principio, perché è impensabile dover scegliere tra lavorare e vivere nella propria terra: dovrebbero essere entrambi dei diritti, entrambi inalienabili.

Vede, signora Fornero… io sono laureata, parlo bene e scrivo meglio, conosco tre lingue, so usare il congiuntivo, mi tengo al passo con i tempi, conosco Internet e non ho paura di sporcarmi le mani o mettermi in discussione, non ho paura di stancarmi, non ho paura di dire ‘non lo so fare’ perché se sono brava in quello che conosco sono altrettanto brava ad imparare ciò che ancora non so.

Io sono questo, non sono choosy. Sono questo e non posso neanche accedere ad un ridicolo concorso pubblico per l’insegnamento perché ho la maturità classica e non l’ho conseguita prima del 2002. Sono questo e devo leggere di lei che ci esorta a non essere choosy, come se avessimo bisogno di essere esortati.

NO. Non ne abbiamo bisogno, mi creda. Abbiamo bisogno di qualcuno che faccia luce nel nostro futuro, ci faccia capire che i sacrifici di oggi non sono tutti vani, che è ancora possibile costruirsi una vita, che un giorno potrò rendere mia madre davvero orgogliosa e addormentarmi senza dover contare quanti euro ho nel portafogli chiedendomi se arriveranno anche il mese prossimo – o meglio, se il mese prossimo avrò ancora un lavoro, di qualsiasi tipo esso sia.

Spesso mi abbatto, mi scoraggio e mi dico che tutto questo ‘sbattimento’, mi passi il termine non proprio formale, non serve a nulla, che farei meglio a mollare tutto e scappare, ma scappare non è da me. Sa, spesso sono quelli choosy come li definisce lei a scappare sapendo che altrove ci può essere solo di meglio. Poi però mi riprendo, mi faccio forza con le parole di un amico o l’abbraccio del mio fidanzato, mi consolo con gli incoraggiamenti di mia madre, mi cullo ancora nei sogni di poter essere mamma anch’io, un giorno, e poter insegnare a mio figlio ad essere così come mi è stato insegnato: io lotto, io spero, io non mi fermo, io continuo e m’impegno al massimo, sempre e comunque, sperando che prima o poi non sarà necessario fuggire in America per riappropriarsi della propria dignità; sa com’è, in teoria, noi viviamo in una Repubblica Democratica Fondata Sul Lavoro.

Di choosy, in me, non c’è proprio niente. E mi piacerebbe se lei e tutti i suoi colleghi, di quale schieramento politico non fa alcuna differenza, prima di parlare ed utilizzare un qualsiasi aggettivo esortativo o meno, vi calaste direttamente e VERAMENTE nella realtà italiana attuale, non solo per partito preso o per l’immagine che voi stessi vi siete costruiti: venitemi a trovare, trascorrete con me una delle mie giornate, condividete i pensieri che una volta al giorno mi tolgono un po’ di pace. Poi, ridefiniamo insieme il significato di choosy.

Cordialmente, ma non troppo Dalila Coviello – un’italiana laureata come tante

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