Bon Ton: ora c’è chi lo insegna

“La ringrazio infinitamente di concedermi un po’ del suo prezioso, laborioso tempo”. Già dalla sua seconda frase, pronunciata dopo il classico “buongiorno” addolcito da un riconoscibilissimo aplomb da fiorentino forbito, si capisce che l’intervista ad Alberto Presutti, insegnante di bon ton, non sarà il solito ripetitivo scambio di domande/risposte, cinque minuti e poi ognuno alla sua giornata.

In effetti, è stata diversa. Lenta. E imprevedibile. Alberto Presutti è, anzitutto, un poeta. Uno che l’italiano lo maneggia con grazia. Ed è un insegnante. “Iscritto all’Associazione Italiana Formatori” ci tiene a precisare quasi subito. “Io sono un docente di galateo, di comunicazione dello star bene, di bon ton” risponde alla domanda: “Ma lei, in definitiva, che lavoro fa?” postagli dopo aver scorso il suo lambiccato curriculum sul suo sito (www.poetando.it).

E il dubbio viene quasi subito: “Ma cos’è il bon ton?” gli chiedo. “Il bon ton è l’armonia del vivere bene, del relazionarsi con gli altri in modo sereno”. Sembra filosofia. “E come mai oggi ce n’è così tanto bisogno?”. Qui, la sorpresa più grande: “E’ colpa del ‘68”. Immediato cambio di registro: passiamo all’atto pratico. “Lei ha tenuto corsi di bon ton di preparazione al colloquio di lavoro”.

Per parlarne, cita Rockfeller: “Sono pronto a pagare la capacità di relazionarsi con le persone più di ogni altro talento”. Quindi: comunicazione interpersonale. “Certo, e dobbiamo stare attenti a cosa comunichiamo non verbalmente durante il colloquio”. Sono indispensabili degli esempi: “Attenzione alla puntualità. Mai in ritardo, ma neanche arrivare troppo presto: se siamo in anticipo, meglio rifugiarsi in un bar (ma occhio alla caffeina, è un eccitante)”. E l’abbigliamento? “Non si va in passerella. Quindi, sobrietà. Soprattutto, per le ragazze: inutile vestirsi per conquistare il selezionatore. Sarebbe un brutto colpo arrivare lì, e scoprire che è una donna, magari di mezza età, che instaura un immediato rapporto di conflittualità con la nostra giovane avvenenza”.

Cambio di scena: esame universitario. C’è bisogno di bon ton anche per quello? “Ovviamente. Innanzitutto: gli occhi. Guardare sempre il volto del docente. Non siamo manichini. Siamo persone”. Qualche dettame sulla postura? “Semplice, come a tavola: avambracci appoggiati sulla cattedra, non si gesticola, e non si accavallano le gambe. E poi, evitiamo di arrampicarci sugli specchi: se ad una domanda non sappiamo dare risposta, meglio confessarlo”.

Per concludere, sintetizziamo: il bon ton sembra essere rispetto di se stessi. Un rispetto che ci permette di comunicare bene anche con gli altri. Alla pari, e con stile. “Bravissimo, è esatto” mi applaude il docente soddisfatto d’esser stato compreso. Ovvia domanda conclusiva: “Ma è difficile impararlo?”. “La banalità racchiude spesso concetti complessi” risponde. Stavolta, le parole sono di Sherlock Holmes. Manco a dirlo: un perfetto gentiluomo inglese. Tra l’altro, completamente immaginario.

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