Pubblichiamo la lettera inviata alla nostra redazione da un giornalista e attualmente insegnate di sostegno sulla disabilità nelle scuole
Qualche tempo fa si chiamava solo così: handicap. E voleva dire tante cose. Poi il tempo, gli uomini e le leggi hanno cambiato il termine in disabilità e, infine, in diversamente abile. La sostanza cambia però poco e la persona in difficoltà resta in difficoltà, c’è poco da fare. Tuttavia, e non è un gioco di parole, c’è molto, sempre, da fare, per loro. Come sto facendo io, giornalista dal lavoro perennemente precario, insegnante di sostegno che ha dato più ai giornali e quindi meno alla scuola nei primi anni della sua vita lavorativa, quindi oggi diviso in due, tra la scuola (come assistente specialistico) alla mattina e redattore (parola grossa, visto che il contratto non c’è, il lavoro è enorme e lo stipendio stenta ad arrivare) al pomeriggio. Ma non è di me che voglio parlare, per far capire quanto importante sia l’impegno, più volontario, benché specializzato, retribuito ad ore con contratto annuale a 10 euro netti l’ora, quanto sia importante occuparsi del ragazzo che vuole studiare e prendere un diploma in un Istituto Tecnico Industriale di Roma.
Ogni giorno 3-4 ore interamente, intensamente, fisicamente, psicologicamente, didatticamente (perché l’insegnante di sostegno con i tagli che ci sono stati può solo 6 ore settimanali), amorevolmente dedicate a lui. Si dovrebbe andare in bagno, aggiustare la postura. Per fortuna (quale fortuna?) lo studente è “solo” portatore, sempre come si diceva una volta, di handicap fisico motorio. Certo, nulla a che vedere con le difficoltà ad operare con un soggetto autistico, “magari” grave o con altre perturbazioni psicotiche o comportamenti aggressivi e asociali, per carità… Ma quale frustrazione, quali paranoie, quanta dipendenza da quella carrozzella su cui si è inchiodati, per colpa di una distrofia muscolare (nella peggior forma, sindrome di Duchenne, la più velocemente degenerativa) dall’età di 6-7 anni!
Il lavoro è ogni giorno molto coinvolgente, estremamente simbiotico, la quasi totale dipendenza del ragazzo dall’operatore rende necessaria, per l’operatore, una considerevole dose di energie psicofisiche per conservare quella “giusta distanza” che può far crescere il rapporto scolastico in maniera produttiva e indirizzata verso un’idea di autonomia che, nel caso in questione, certo non può essere raggiunta, ma conquistata e riaffermata in un percorso quotidiano di presa e abbandono, di attenzione e sdrammatizzazione.
È una storia lunga e complessa, bella e coinvolgente, trama di una relazione sociale di solidarietà e con… passione. Che ha tanti capitoli ed episodi ancora da annotare.
Riccardo Palmieri