Un diario di scuola e la sindrome di Asperger: Sandy spiega perché il sistema non funziona

scuola sandy

Ho sempre percepito di funzionare in modo diverso dai miei coetanei: sogni differenti, interessi diversi, insomma, tutto. Poi, il test ha dato la sua conferma: diagnosi certificata. Ho un modo particolare di affrontare la vita sociale. Il problema? La maggior parte delle persone ha tradotto questo aspetto come: “Non capisce niente”. Il motivo? Ancora oggi, dopo cinque anni, non l’ho compreso. Mi chiamo Sandy, e questa è la mia storia a scuola, il luogo che dovrebbe essere il più inclusivo di tutti.

Come racconta Adnkronos per cinque anni, durante gli intervalli, Sandy (nome di fantasia) ha scritto su un quaderno i suoi pensieri. Ne è nato un diario dettagliato della sua esperienza scolastica. Un racconto lucido di una ragazza adolescente con sindrome di Asperger, oggi diciottenne e prossima al diploma, che si sente delusa dal percorso educativo ricevuto. A suo avviso, la scuola non ha fornito un supporto “su misura” per valorizzare il suo potenziale, ma piuttosto un sistema rigido che non l’ha realmente aiutata a esprimersi e a integrarsi.

L’importanza della testimonianza di Sandy per la scuola

Sandy ha scelto di rendere pubblica la sua esperienza attraverso Adnkronos Salute, sperando che la sua storia possa far riflettere le istituzioni. Il suo obiettivo è evitare che altri ragazzi e ragazze con un funzionamento neurodivergente debbano affrontare le stesse difficoltà. La sua mamma, pur conoscendo il percorso di sua figlia, ha descritto la lettura del diario come “un pugno nello stomaco”. Sul tema del sostegno scolastico e dell’inclusione si esprimono politici, sindacati, docenti ed esperti, ma raramente si ascoltano le testimonianze dirette degli studenti che vivono questa realtà ogni giorno. Sandy diventa così una voce essenziale, un faro su un mondo ancora poco compreso.

L’istituto scolastico frequentato da Sandy si trova nel Nord Italia. Prima di iniziare il suo racconto, precisa: “Nel mio percorso ho incontrato insegnanti che hanno fatto la differenza. Va riconosciuto il valore di chi si impegna anche senza la giusta formazione. Il sistema deve essere migliorato, ma non mancano persone che ce la mettono tutta”.

Un sostegno scolastico inadeguato

Quando Sandy entra in prima superiore, le viene assegnato subito un insegnante di sostegno. “Bello, no?” scrive nel diario. Ma fin dal primo giorno sente che qualcosa non va. “Mi sono scelta il mio posto in classe: ultima fila, secondo banco. Perfetto. Abbastanza vicina per seguire, ma non troppo per stare addosso ai prof.” Tuttavia, appena arriva l’insegnante di sostegno, la sua autonomia viene ridotta: viene spostata in prima fila, con il docente che la segue costantemente e controlla ogni sua attività. “Mi sento trattata come una stupida. Perché mi spiegano le cose infinite volte come se non potessi capire?” si chiede Sandy.

Nel tempo, la sua passione per la scuola si affievolisce. “A me che piaceva tanto studiare, a me che ogni argomento interessava sempre tantissimo, a me che volevo diventare insegnante”. Ma le ore in classe diventano un conto alla rovescia.

La DAD e l’isolamento

L’arrivo della DAD durante la pandemia di Covid-19 peggiora la situazione. “I DSA potevano andare in presenza, e io ho accettato per poter seguire meglio le lezioni”, racconta Sandy. Ma anziché partecipare alle spiegazioni con la sua classe, viene portata in un’aula separata per ricevere spiegazioni individuali su concetti che gli insegnanti presumevano non avesse compreso. “Piangevo, mi svegliavo la notte”, scrive nel suo diario. Tornata la didattica in presenza, la situazione non migliora: anziché aiutarla a integrarsi, il supporto ricevuto la fa sentire ancora più esclusa.

La battaglia per l’indipendenza

Nel secondo anno Sandy prova a cambiare strategia: “Mi metto al centro della classe per avere la possibilità di interagire con i miei compagni”. Ma anche questa scelta viene ostacolata. L’insegnante di sostegno continua a trattarla come una bambina, insiste nel spiegarle concetti più volte, impedendole di seguire le lezioni come gli altri. Alla fine della seconda, decide di parlarne con i genitori e ottiene un nuovo docente di sostegno, che finalmente le concede più autonomia.

“Mi sembrava un sogno: seguivo tutte le lezioni e facevo anche l’intervallo con gli altri”, scrive Sandy. Tuttavia, il danno era già stato fatto: si sentiva ancora un’estranea tra i suoi compagni. Solo nel terzo anno trova un gruppo con cui condividere la passione per il teatro. Ma la sensazione di essere trattata diversamente persiste. “Gli altri parlavano con me come se fossi una bambina di sei anni”.

La solitudine e l’esclusione a scuola

Al quarto anno, un nuovo colpo. Il suo gruppo la esclude, lasciandola di nuovo da sola. “Oltre al mio educatore e al mio insegnante di sostegno, non era rimasto nessuno”. Cerca di resistere, ma poi arriva un episodio che la ferisce profondamente: “A Natale, vedo una foto di classe. C’erano tutti, tranne me. L’avevano scattata mentre io ero fuori a fare un’interrogazione”.

L’ultimo anno porta ulteriori difficoltà. Dopo aver perso la nonna, spera in un po’ di supporto dai compagni, ma il giorno dopo tutto torna come prima: l’esclusione continua. “Ho capito che sono ‘troppo disabile’ per essere trattata come gli altri, che per la scuola impiego troppo tempo a capire, che non sono in grado di tornare a casa da sola perché ho un compagno che mi deve controllare. Ma la verità è che chi non ha capito non sono io. La gente si ferma alla mia diagnosi senza voler comprendere chi sono davvero”.

Un messaggio per il futuro

La testimonianza di Sandy solleva interrogativi profondi sull’efficacia dell’inclusione scolastica. Se il supporto viene vissuto come un limite anziché un aiuto, il sistema deve rivedere le proprie strategie. La scuola dovrebbe valorizzare ogni studente, non etichettarlo in base alla sua diagnosi. “Disabilità significa avere un modo diverso di funzionare, non significa ‘non funzionare'”, conclude Sandy.

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