Il sistema universitario italiano dovrà affrontare un 2025 con meno risorse. I tagli previsti dalla legge di Bilancio sarebbero pari a circa 700 milioni di euro tra taglio al Fondo di Finanziamento Ordinario e adeguamento Istat degli stipendi, mangiati dall’inflazione, senza contare gli oltre 300 milioni di coperture dal piano di reclutamento dei docenti. Il mondo degli atenei è in subbuglio dall’estate. Il rischio è quello di vanificare la “spinta” delle assunzioni dovute ai fondi Pnrr che termineranno nel 2026 e che la politica aveva promesso di rendere strutturali.
Quali sono i reali rischi per gli atenei italiani, soprattutto quelli di media o piccola grandezza che hanno fatto del rapporto con il territorio la propria forza? E quali sono le prospettive future per studenti e ricercatori? Lo abbiamo chiesto al Rettore di uno degli atenei che in primavera si sono “associati” nella sigla Atenei Centro Italia, il prof. John McCourt dell’Università degli Studi di Macerata.
Rispetto il taglio per l’università italiana in legge di Bilancio cosa rischia concretamente il sistema degli atenei?
I tagli prevista nella legge di Bilancio 2024 avranno conseguenze significative per il sistema universitario italiano anche per atenei con bilanci solidi come il nostro. Rischiamo la paralisi, ovvero l’impossibilità di programmare il futuro. Saremo costretti a navigare a vista. Tra tagli e costi aggiuntivi, fra le altre l’adeguamento Istat degli stipendi (+ 4.8%) e la non assegnazione delle coperture aggiuntive per i 340 milioni previsti dal piano per i professori Associati, c’è un calo complessivo di 700 milioni di euro. Perdiamo l’8% del nostro budget.
Tali riduzioni mettono a rischio la sostenibilità di molte università oggi in piena salute, in termini di copertura delle spese ordinarie ma soprattutto del personale. Gli atenei potrebbero trovarsi costretti a ridurre i servizi per gli studenti, le risorse per la ricerca, a trasferire risorse destinate per i lavori edilizi, o persino a dover aumentare le tasse universitarie penalizzando ingiustamente i nostri studenti e le loro famiglie. I tagli ostacoleranno in modo deciso le politiche di reclutamento e le attività di ricerca, danneggiando la competitività del sistema accademico italiano rispetto agli standard europei, dove già l’Italia investe meno della media e si piazza al penultimo posto in Europa per numero di laureati pro-capite. Questo è un freno per la crescita del Paese. Aggiungiamo a tutto questo, la crescita delle università telematiche che ci fanno concorrenza.
Quali rischi in particolare per l’Università di Macerata?
L’Università di Macerata, riconosciuta per la sua eccellenza nelle discipline umanistiche e nelle scienze sociali, potrebbe avere difficoltà a mantenere tutta l’attuale offerta formativa e a sostenere progetti innovativi. Le risorse vincolate a specifici obiettivi (come assunzioni o infrastrutture) potrebbero non compensare le riduzioni della quota libera del FFO, lasciando pochissimo spazio per la pianificazione strategica futura.
Inoltre, il rischio non è solo per l’università ma per il territorio. C’è preoccupazione per l’impatto sulla tutela del diritto allo studio: potrebbero aumentare le tasse universitarie in una zona d’Italia che affronta significative sfide di crescita economica. Vari servizi cruciali rischiano di essere sottodimensionati. Questo è particolarmente rilevante per una realtà come Macerata, che si impegna a promuovere inclusività e qualità nella formazione. L’impatto poi sul territorio è tutto da quantificare. Ma per una città universitaria come Macerata, gli effetti negativi a catena sulla città saranno notevoli.
La presidente della Crui Iannantuoni ha affermato davanti la Commissione Bilancio della Camera: “Avete deciso che il nostro Paese non ha bisogno di università”. È così?
Temo di sì. Sembra che ci sia una mancanza di riconoscimento del ruolo strategico delle università per il futuro del Paese. L’affermazione della Iannantuoni sottolinea l’allarme di tutti i Rettori per l’impatto delle riduzioni strutturali al FFO sull’intero sistema. I tagli non sono una tantum, ma compromettono sia la sostenibilità economica delle università sia la possibilità di investire in innovazione e ricerca, fondamentali per lo sviluppo del Paese, mettendo in pericolo la qualità dell’istruzione, il diritto allo studio e la capacità degli atenei di competere a livello internazionale. I tagli sembrano contraddire la necessità di aumentare il numero di laureati, indebolendo l’Italia a fronte di una “knowledge economy”, un’economia basata sulla conoscenza. Dopo gli importanti investimenti per la ricerca che sono arrivato con i fondi del PNRR, si rischia una frenata brusca che cancella e vanifica i piccoli progressi degli anni recenti.
Quanto incideranno questi tagli sulla programmazione della Ricerca nel suo ateneo?
Saremo costretti a rallentare il reclutamento in modo radicale e a ricorrere ancora di più all’uso dei contratti annuali per coprire gli insegnamenti. Dopo anni di investimento in termini umani e economici, rischiamo di perdere i nostri giovani studiosi più bravi, che verranno incardinati altrove. Fra meno di due anni finiranno i fondi PNRR e la ricerca rischia di arenarsi.
Secondo lei perché quando si deve tagliare in Italia si parte sempre dall’Istruzione?
E’ un tema complesso, che riflette una serie di dinamiche politiche, economiche e culturali. Manca una visione dell’insieme, una capacità di fare investimenti strategici e di ragionare a lungo termine per il settore universitario. Poi, in tempi di crisi, con la necessità di rispettare i vincoli di bilancio, i governi tendono ad intervenire su settori che non hanno una lobby forte. Ahimè, l’Università è uno di questi settori. La politica in Italia sembra costruita più per gli anziani che per i giovani (che spesso non votano). C’è una scarsa consapevolezza del valore strategico di un’istruzione di qualità per lo sviluppo sociale ed economico.
Con la crisi demografica si perderanno in vent’anni 415 mila studenti, crede che i tagli incideranno in modo negativo su questa cifra?
L’Italia e l’Europa stanno fronteggiando una crisi demografica senza precedenti e rischiamo di diventare il museo del mondo. Quasi il 25% della popolazione italiana ha più di 65 anni e la percentuale crescerà nei prossimi anni. L’Europa non è da meno e il flusso migratorio è insufficiente a invertire la tendenza generale. Già molte scuole sono a rischio e si parla sempre di più di pluriclassi. La diminuzione di possibili futuri iscritti all’università è preoccupante per la tenuta economica del sistema universitario e delle stesse città che ospitano le università.
Vedo un forte rischio di trovarci con un sistema universitario seriamente indebolito. Eppure ci sono centinaia di milioni di giovani nel mondo che vorrebbero iscriversi all’Università. Con una forte politica di internazionalizzazione, l’Italia potrebbe diventare una meta ambita per loro anche con l’uso intelligente dell’E-learning e con una maggiore offerta di corsi impartiti in lingua inglese.
Come giudica l’accordo che si sta prospettando con le università telematiche e il ministero? La Crui ha bocciato il decreto Bernini su questo tema, soprattutto riguardo l’obbligatorietà delle lezioni sincrone
Apprezzo che il Ministro stia cercando di mettere ordine in questo settore. Allo stesso tempo, si rischia di “chiudere la stalla quando i buoi sono scappati”, cioè, di agire troppo tardi, a danno ormai compiuto. Credo fortemente che fare l’università vuol dire studiare in presenza con altri giovani all’interno di una comunità. Come disse Yeats, “L’istruzione non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco”. Bisogna trovare ispirazione e passione durante il proprio percorso. Credo che questo sia molto più difficile online, dove la parte relazionale e umana viene meno.
Detto ciò, i corsi erogati in e-learning possono essere utili e attrattivi per chi vuole conciliare lo studio con altri impegni lavorativi o personali. Per rispondere in modo più specifico, credo che l’obbligatorietà delle lezioni sincrone (cioè in tempo reale, con orari fissati) potrebbe minare un punto di forza del modello telematico, la flessibilità del tempo di apprendimento, utile ai lavoratori, genitori o persone che vivono in zone con connessioni Internet limitate.
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