Privilegio del lavoro: lusso da estendere

Il lavoro non è un privilegio, bensì un diritto. La perdita di identità professionale ha conseguenze sulla dimensione psicologica e sociale dell’individuo. Si è ormai diffusa una precarietà travestita da flessibilità che attualmente si è trasformata in privilegio. Il privilegio di lavorare “comunque”.

Da anni il mondo del lavoro e la “cultura” del lavoro si interroga sull’opportunità e i vantaggi della flessibilità professionale rispetto alla stabilità lavorativa, garantita dal famigerato “posto fisso”. L’intervento del ministro Giulio Tremonti al convegno dalla Bpm sulla partecipazione dei lavoratori all’azionariato delle imprese “non credo che la mobilità sia di per sé un valore. Per una struttura sociale come la nostra, il posto fisso è la base su cui costruire una famiglia. La stabilità del lavoro è alla base della stabilità sociale” ha ravvivato il dibattito.

“Il lavoro a tempo indeterminato di per sé non esclude la mobilità. Ma il problema è che in Italia abbiamo la precarietà e non la mobilità, che di per sé non è precaria”, ha dichiarato Giuseppe Roma, direttore generale del Censis, commentando le parole di Tremonti.

La precarietà comporta insicurezza lavorativa e incide sull’efficienza della stessa azienda. Patrizio De Nicola, docente di Organizzazione del lavoro alla ‘Sapienza’ di Roma sostiene che la flessibilità, in Italia, è stata applicata in modo erroneo. “Per i lavoratori la flessibilità si trasforma spesso in precariato, per mancanza di un’adeguata rete di protezione sociale, mentre per le aziende è stata un fallimento”.

Un’azienda che non investe nel proprio personale e mira solo ad una riduzione dei costi, ha una visione miope del proprio operato. Inoltre, afferma De Nicola “i lavori troppo mobili sulla costruzione dell’identità e dell’autostima, i lavori “usa e getta’” non contribuiscono a un’immagine solida e basata anche sull’identità lavorativa”. Di contro, un recente studio di Robert Halfer, condotto su 5,500 dipendenti in 18 paesi europei ha evidenziato l’aumento di stress nei posti di lavoro.

In Italia l’incremento è del 59%. Tra le motivazioni, la congiuntura economica, la riduzione di organico che provoca un eccessivo carico nella ridistribuzione del lavoro. I dipendenti auspicano una maggiore trasparenza nella comunicazione aziendale e una maggiore gratificazione economica. La pressione lavorativa non produce efficienza, ma logora e demotiva il lavoratore.

E’ compito del management aziendale di impostare condizioni professionali che facilitino il lavoro non che frenino. Se il dipendente è il primo a rimanere escluso dalla filiera lavorativa, si produce uno scollamento interaziendale e la produzione si arena.

In quest’ultimo periodo esperienze felici di gestione aziendale ci vengono dalla costituzione di un nuovo dipartimento all’interno delle aziende: “Il Diversity Management” (nato negli USA, agli inizi degli anni ’90) in cui si studia la diversità culturale e di genere tra i dipendenti al fine di valorizzare la differenza e renderla un valore aggiunto per l’impresa.

Esempio: una strada vincente in cui coltivare la diversità anche anagrafica, in cui “le giovani leve” costituiscono un valore diverso, ma importante per le imprese rivolte al mercato (in senso lato) dell’innovazione e della ricerca. Monitorare e comprendere le esigenze di un giovane lavoratore contribuisce a far crescere.

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