Pnrr, 675 milioni per gli impianti innovativi di energia rinnovabile. Gualtieri (Cnr): “L’eolico offshore in Italia ancora non sfruttato”

Un nuovo studio del Cnr fornisce strumenti per ottimizzare l’indiduazione delle aree migliori per lo sfruttamento dell’eolico

All’interno del Pnrr ci sono 675 milioni di euro per impianti di energia rinnovabile “innovativi” come impianti eolici in mare offshore galleggianti, o anche fotovolataici o che sfruttano l’energia delle onde del mare. Tali fondi, però, una volta acquisiti legano le aziende a terminare i lavori entro giugno 2026. Un periodo molto corto se pensiamo alla poca agilità della burocrazia italiana. “Una volta che è stata fatta una campagna di misurazione la costruzione in se richiede meno tempi rispetto la burocrazia. La parte più onerosa di un impanto non è tanto la progettazione ma tutta una serie di precauzioni che devono limitare l’impatto che ha rispetto il territorio”, afferma a Corriereuniv.it il dottor. Giovanni Gualtieri che recentemente ha firmato uno studio dell’Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibe) sull’individuazione delle aree più produttive per l’eolico.

Lo studio del Cnr

“Il nostro studio – racconta il ricercatore – fornisce degli strumenti, attraverso lo studio di dati pubblici, con cui si ottimizza l’individuazione delle aree maggiormente vocate allo sfruttamento dell’eolico. La ricerca si è concentrata nell’individuazione di siti, a livello mondaile, sfruttando dati metereologici e mettendoli a confronto per valutare quali sono i prodotti disponibili pià precisi in funzione dell’area di studio”. Dati presi dal più grande archivio metereologico mondiale, l’European Center Medium Weather Forecast (ECMWF). “Oggi l’approccio standard è complesso per individuare un’area ad alto sfruttamento eolico, ci si affida agli atlanti del Cesi o al Global Wind Atlas, ma è chiaro che queste fonti forniscono una sinstesi di un’area e non una volutazione più precisa a livello temporale”. Non solo. Fare fisicamente una valutazione, soprattutto per quanto riguarda l’offshore significa istallare torri di misurazione e altri strumenti molto costosi, senza contare che “non si può pensare di fare al largo di 30-40 km dalla costa un’indagine esplorativa”, sottolinea Gualtieri. Lo studio del Cnr differenzia tra aree offshore, pianeggianti, costiere – che sono le più critiche – e quelle di momtagna. Quest’ultime sono “le più vocate per lo sfruttamento dell’olico ma anche le più difficli da raggiungere”; ed anche quelle con maggiore impatto ambientale.

“In generale l’eolico offshore ha un resa maggiore rispetto quello a terra per vari motivi – spiega il ricercatoreò -. Prima di tutto c’è più vento in mare, in secondo luogo c’è anche una maggiore qualità del vento nel senso che non è intermittente come nell’entroterra, con turbolenze e incanalamenti. Senza contare, poi, che questo tipo di sfruttamento genera meno dispute, non ci sono espropri da fare ad esempio. Però è nettamente più costoso, rispetto all’onshore, man mano che ci si allontana dalla costa e man mano che il fondale si abbassa”. Ci sono due modi di fare l’offoshore eolico in mare: mettere le turbine su dei pali fissati sotto’acqua o usare dei sistemi galleggianti di nuova sperimentazione. “Meno impattanti e possono essere spostati, certo, però va detto che questa è ancora una tecnoliogia giovane, costosa e ancora poco diffusa. Bisogna dire, però, che per i pali sott’acqua l’Italia ha fondali abbastanza ripidi e oltre i 60m diventa sconveniente usare questo metodo”. Basti pensare che l’unico parco offshore, quello di Taranto, che non è un offshore perché è nel porto “ed è stato costruito in 14 anni con una tecnologia inadatta alle esigenze di oggi”.

Novergia, Regno Unito e Germania e la transizione ecologica in Italia

Nel novembre 2021 all’ex Ministero per la Transizione ecologica erano arrivate 64 manifestazioni di interesse rispetto l’approvazione di progetti, cofinanziati dal Pnrr, che riguardavano la costruzione di eolico offshore galleggiante. “55 da parte di imprese e associazioni di imprese, 3 da parte di associazioni di tutela ambientale (WWF, Legambiente e Greenpeace) e 7 da altri soggetti (ANEV, Elettricità futura, CNA, CGIL, Università Politecnico di Torino, OWEMES – associazione di ricercatori, CIRSAM – Consorzio Internazionale per lo sviluppo e ricerca adriatico e mediterraneo)”, scrive in una nota il ministero. “”Almeno 20 delle manifestazioni d’interesse hanno proposto progetti circostanziati, che in numerosi casi prevedono impianti flottanti collocati oltre le 12 miglia. In totale, sono stati esaminati 40 progetti di impianti eolici offshore flottanti, prevalentemente localizzati al largo della Sicilia e della Sardegna (più di 20), lungo la costa Adriatica (più di 10) e, per la restante parte, distribuiti tra Ionio e Tirreno“.

“Oggi l’onshore nel Sud Italia è saturo. Invece al largo della Sicilia, ma anche a sud di Tranto, nello Ionio, c’è possibilità di sfruttamento. Però quest’ultimo, come il mare intorno alla Sardegna ha fondali profondi a differenza di quelli dell’Adriatico del Nord Italia, che purtroppo scontano il fatto di non avere una grande siti ad alto potenziale di sfruttamento”. L’Italia da questo punto di vista è estremamente indietro, non avendo di fatto parchi eloici offshore in funzione (Taranto permettendo). “Non si capisce perché all’estero, tra Regno Unito e Germania, l’offshore è quasi paragonabile all’onshore, anzi nel Regno Unito, soprattutto al largo nella Scozia sono la maggioranza, mentre da noi non è praticamente sfruttato”. In Novergia l’Hywind Tampen, a 140km al largo delle coste scandinave, in acque profonde quasi 300m, è il più grande parco eolico galleggiante al mondo con il suo potenziale da 88MW. E tra le aziende che lo gestiscono c’è anche l’Eni. L’azienda che lo ha costruito, la Equinor, nel 2017 aveva inaugurato il primo parco eolico galleggiante al mondo, al largo della Scozia.

In Italia, poi, c’è anche un problema di tipo economico, come ricorda Gualtieri: “Scontiamo la problematica degli incentivi dati 10 anni fa. L’incertezza del mantenimento, con il rischio di essere tagliati ad ogni cambio di governo. I grandi gruppi industriali si indebitano con le banche e quindi vorrebbero avere la sicurezza che tali incentivi vengano mantenuti costanti nel tempo, in periodi definiti. I problemi economici, alla fine, si riversano sulla collettività, su questa famosa transizione verde che dovremmo fare tutti e invece, per vari motivi, è ostacolata”.

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