L’Italia perde 300 milioni l’anno di fondi destinati alla ricerca. La denuncia arriva da Giorgio Parisi, uno dei fisici più autorevoli del mondo secondo la scala h-index e tra gli scienziati più importanti del nostro Paese, attraverso una lettera indirizzata all’Unione Europea e pubblicata dal periodico specializzato Nature.
“I tagli a ricerca e università a cui l’Italia ha assistito dal 2008 a oggi determinano il paradosso per cui il Paese contribuisce con 900 milioni l’anno al fondo europeo per la ricerca, ma solo 600 tornano ai ricercatori italiani sotto forma di finanziamenti”, svela Parisi intervistato da Il Fatto Quotidiano.
“Il finanziamento con cui ogni Paese contribuisce al fondo europeo è calcolato sulla base del prodotto interno lordo e non sul numero di ricercatori presenti sul territorio nazionale – continua il fisico – I ricercatori italiani sono circa 150mila, contro i 430mila britannici, i 520mila tedeschi e una media europea di 250mila. L’Italia è quindi in una situazione opposta a quella britannica. Il Regno Unito contribuisce al 10% del fondo europeo – contro il 14% dell’Italia – ma vanta il doppio dei ricercatori”.
Un gap di 300 milioni che si allarga ulteriormente se si considerano i ricercatori italiani che, una volta ricevuto il finanziamento dalla Ue, scelgono di portare i propri progetti in Paesi con investimenti più sistematici, che possono garantire il prosieguo della ricerca nel tempo: “Negli ultimi dieci anni la Francia ha investito 600 milioni l’anno contro i 60 milioni, in media per lo stesso periodo, del Prin italiano – spiega Parisi – Per beneficiare dei 600 milioni di fondi europei che tornano in Italia ci vorrebbe un investimento dello stesso ordine di grandezza. Non mettere questa cifra a bilancio significa impedire ai ricercatori di sviluppare competenze e di partecipare, in futuro, ai bandi per i fondi europei con un crescente numero di domande. La metà dei fondi Erc ottenuti dai ricercatori italiani non restano in Italia, poiché i vincitori preferiscono andare all’estero, portando con sé il finanziamento”.
Riportiamo di seguito la traduzione della lettera firmata da Giorgio Parisi e da altri ricercatori italiani indirizzata all’Unione Europea.
Chiediamo all’Unione Europea di spingere i governi nel mantenere i loro finanziamenti alla ricerca sopra i livelli di sussistenza. Solo così, gli scienziati di tutta Europa, e non solo quelli del regno Unito, della Germania o della Scandinavia, potranno competere per i fondi del programma Horizon 2020.
Il portafoglio della Ue per la ricerca è diviso tra la parte provvista dalla Commissione Europea e quella dei governi nazionali. La commissione finanzia grandi, transnazionali network di collaborazione in quasi tutte le aree di ricerca applicata, mentre i governi supportano progetti più piccoli, dal basso verso l’alto e i loro programmi strategici di ricerca.
Alcuni Paesi membri non stanno ricevendo la loro parte dell’accordo. L’Italia, per esempio, trascura la sua base di ricerca. Il Consiglio Nazionale delle ricerche non ha guardato alla ricerca di base per decadi, essendo esso stesso a corto di risorze. I finanziamenti per le università sono scemati al minimo. L’iniziativa ministeriale nota come PRIN (Progetti di ricerca d’interesse nazionale) è in ndeclino dal 2012, a parte alcuni pochi programmi destinati ai giovani ricercatori.
Il PRIN di quest’anno, che alloca 92 milioni di euro per coprire tutte le aree di ricerca, è troppo limitato e arriva troppo tardi. Specie se comparato con l’importo messo a disposizione quest’anno dalla French National Research Agency di 1 miliardo di euro, o con il contributo italiano di 900 milioni di euro l’anno al Programma Settennale 2007 – 2013 dell’Unione Europea per la ricerca. Il risultato è una perdita netta di 300 milioni di euro per la scienza italiana.
Per prevenire distorti sviluppi nella ricerca scientifica tra i Paesi della Ue, le politiche nazionali devono essere coerenti e garantire un equilibrio tra utilizzi e risorse.
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