Dal 2026 mancheranno fondi per i contratti all’università, e i primi ad accorgersene saranno i ricercatori. Oggi sono 15mila i precari che tengono in piedi il sistema universitario: è il cosidetto “preruolo”, il percorso avviato dopo la fine del dottorato di ricerca per diventare docente di ruolo. Secondo l’Adi, l’Associazione dei Dottorandi e Dottori di Ricerca italiani, in media il percorso accademico post dottorato inizia verso i 31 anni e si conclude attorno ai 43 anni, con un’asticella che negli anni si è alzata sempre di più aumentando progressivamente l’età media dei docenti di ruolo.
Nella scorsa legislatura di cercò di migliorare questo labirinto di contratti e contrattini, assegni di ricerca, borse post laurea e così via. Venne varato con decreto del governo Draghi il contratto di ricerca che avrebbe dovuto sostituire l’assegno. Una forma non precaria con malattia, reali contributi e così via. Ma non essendo precario, appunto, è una forma contrattuale che pesa sulle casse degli atenei italiani che dopo il 2026 sarà all’asciutto dei fondi Pnrr, e senza un reale investimento, lungi dal poter assumere i nuovi ricercatori che diventeranno poi docenti. Il contratto, fortemente voluto dal senatore del Pd Francesco Verducci, non fu mai applicato negli atenei perché il nuovo governo e il ministro Bernini, su spinta della Crui, la Conferenza dei Rettori delle Università italiane, si sono ben visti dall’emanare i decreti attuativi che avrebbero reso reale per le università il cambio contrattuale.
Le forme di lavoro precario
Con il governo Meloni e il ministro dell’Università Anna Maria Bernini istituisce nell’ottobre del 2023 un gruppo di lavoro proprio dedicato al riordino, del preruolo universitario. La ministra parla di “cassetta degli attrezzi” che verrà messa a disposizione dell’università e conterrà ben sei nuovi contratti. L’allarme era stato lanciato dalla segretaria dell’Adi, Rosa Fioravante, proprio da questo giornale.
Ci sono ad esempio le figure da borsista junior e senior che possono essere utilizzate per un massimo di sei anni. C’è, poi, il contratto di ricerca post-doc che può essere utilizzato anch’esso per un massimo di sei anni, inoltre vi è la figura del professore aggiunto, chiamato a svolgere solo incarichi di didattica. Ma secondo l’Adi “tante università utilizzeranno come utilizzano oggi le docenze a contratto per fare corsi che diversamente verrebbero cancellati, per poche centinaia di euro all’anno”. Proprio l’associazione dei ricercatori si riunita in assemblea due giorni fa. “Migliaia di colleghi e colleghe sono sconvolti da un Governo che dà una delega in bianco al ministero sulla riforma dell’Università senza aver mai incontrato, né considerato, le voci e le prospettive di coloro che l’università e la ricerca la fanno”, dichiara a Corriereuniv.ti Fioravante.
Il gruppo di lavoro sui contratti
Di recente proprio il ministero guidato da Bernini ha convocato un altro tavolo di lavoro su temi come la riforma della governance. “Chi è all’interno di quel gruppo non ha alcune investitura di rappresentanza – sottolinea Fioravante – le persone chiamate non sono espressione del CUN (Consiglio Universitario Nazionale Ndr.) né di alcun altro organo del mondo universitario. Sono tutti studiosi di enorme esperienza e fama ma questo non significa che siano rappresentanti di qualcosa che non sia la loro individuale e personale esperienza”. I ricercatori pensano anche a forme di mobilitazione. “Sappiamo di essere completamente ricattabili e che quindi le forme di astensione dal lavoro avrebbero come immediata ripercussione su di noi la nostra stessa espulsione dall’università – afferma Fioravante – ma è altrettanto vero che troveremo un modo per dimostrare che senza di noi in università non si fa più ricerca, innovazione, non si vincono bandi internazionali, non si mandano avanti le carriere degli studenti. Stiamo considerando ogni forma di mobilitazione possibile”.
Il taglio da 500 milioni al Fondo di Finanziamento Ordinario
“Se il Ministero continua a ignorare qualunque nostra richiesta in questo modo disumano, l’università sarà attraversata da conflitti senza precedenti, che denuncino questa mancanza di morale e umanità. Non c’è in gioco solo la possibilità che ricercatori e ricercatrici conducano una vita dignitosa ma anche la qualità della ricerca che si svolge, la qualità delle lezioni e dell’offerta formativa che si offre, la capacità delle università di attrarre talenti”, sottolinea la segretaria dell’Adi.
“La notizia di oggi – conclude Fioravante – è un taglio del Fondo di Finanziamento Ordinario che sbugiarda ogni discorso che si fa sul merito. Siamo il paese con l’università e la ricerca peggio finanziate d’europa e invece che mettere risorse sul lavoro dignitoso e sulle possibilità di scoperte scientifiche importanti, si tagliano i fondi destinati all’ordinario funzionamento degli atenei”. Il taglio riguarda 200 milioni a livello nominale, passando l’FFO da 9,2 miliardi a 9 miliardi, ma sulle voci dell’anno precedente di ben 500 milioni perché nei 9 miliardi vengono conteggiati 340 milioni da quest’anno per le assunzioni definite dalla finanziaria del 2022 (piano pluriennale che finisce nel 2026). “Il finanziamento della formazione terziaria nel nostro paese è al livello più basso dei paesi dell’OCSE e questo taglio ci allontana ancor di più da tutti gli altri; è evidente il disegno di questo governo di creare una università piccola de finanziata per pochi che la frequentano e per pochi che ci lavorano, spesso in condizioni di sfruttamento”, afferma in una nota la Flc Cgil.
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